Save The Planet incontra la rock band The Sun. Intervista a Francesco Lorenzi
A fine febbraio la nostra Onlus si è recata in Veneto per incontrare di persona i membri della rock band The Sun. Il quartetto vicentino, nato negli anni ‘90 come Sun Eats Hours.
La band da subito colse i favori di pubblico e critica, si è esibita in tutta Europa e in Giappone, ha ottenuto il Premio MEI di miglior punk-rock band italiana all’estero e condiviso il palco come spalla a band quali Offspring, The Cure, Muse o Deep Purple.
Nel 2007, dopo un lungo ed estenuante tour avviene la svolta. Francesco Lorenzi, leader e cantante del gruppo scopre che il successo perseguito con tanto impegno e sacrifici non è fonte di felicità, ma al contrario ha minato il rapporto di amicizia che lega la band. Inizia dunque il suo cammino spirituale alla ricerca di sé, avvicinandosi al Cristianesimo e coinvolgendo poi anche gli altri membri del gruppo.
È da qui che ripartono come The Sun, rinati cantando in italiano, una scelta rischiosa e controcorrente che poteva sembrare una follia vista dall’esterno. Ma, dopo aver conosciuto Francesco, Riccardo e Gianluca, scoperto il loro impegno - dalle Giornate della Gioventù al viaggio in Terra Santa - a sostegno di molteplici realtà solidali, abbiamo capito il grande messaggio di testimonianza e rinascita veicolato dalle loro canzoni. Oggi i The Sun, celebrato il traguardo dei 20 anni di attività con un disco doppio, hanno adesso deciso di diventare support band di Save The Planet. Quella che segue è una lunga ed emozionante conversazione avuta con Francesco Lorenzi.
Francesco, partiamo dall’attualità: la recente visita di Papa Bergoglio in Iraq. Vorrei un tuo pensiero su questo evento, considerato che vi siete esibiti in Giordania per i profughi cristiani iracheni.
Il viaggio del Papa arriva dopo una lunga attesa da parte di un popolo che è stato veramente martoriato. I cristiani – come altre minoranze - sono stati messi al muro, vittime delle persecuzioni da parte del Califfato Islamico. La loro condizione ci sta molto a cuore come band, anche perché in Italia le notizie delle loro sofferenze sono arrivate molto in ritardo. Per una serie di ragioni, già nel 2014, quando c’è stato l’avvento dell’ISIS, la nostra attenzione è stata catturata dalla ferocia di queste violenze che cozzavano con il silenzio dei media europei. L’incontro con alcuni di loro rifugiatisi in Giordania ci ha permesso di comprendere come persone, prima ancora che come musicisti, l’importanza di “conoscere” in un mondo bombardato di informazioni. Abbiamo appreso molto sull’importanza della coesistenza tra le religioni, quindi l’attenzione per il popolo cristiano iracheno è nei nostri progetti da sei anni ormai.
Il popolo iracheno è stato vittima della guerra prima e del terrorismo islamico poi, i cristiani in particolare hanno addirittura rischiato un genocidio.
Le loro testimonianze ci hanno rivelato il senso di abbandono della comunità internazionale, così quando il Papa ha dichiarato “vengo come pellegrino penitente” sono state parole forti, ma avendo toccato con mano la sofferenza di queste persone dico meglio tardi che mai. Considera che hanno perso tutto in una notte, costretti alla fuga dall’ISIS che imponeva la conversione immediata pena la vita. Tra l’altro i cristiani, in particolare quelli di Mosul, a livello sociale ricoprivano spesso ruoli importanti, persone di cultura, professori, medici… Hanno lasciato le loro case e sono scappati per preservare la Verità della fede. Sono passati anni prima che in Occidente i media parlassero della loro condizione.
Molte volte però è il rock ad accendere un faro su certe situazioni…
Assolutamente! Deve farlo, è la missione della musica rock, restare una voce nel silenzio - talvolta che grida nel deserto come San Giovanni Battista - come baluardo della verità e dei diritti umani per una convivenza pacifica. Soprattutto è necessario che la musica rock torni a dare voce a quelle persone che non hanno voce.
Mi hai fatto venire in mente che nel 1993 gli U2, durante il tour europeo di “Zooropa”, in ogni concerto denunciavano la guerra in Jugoslavia. C’era ogni giorno in TV ma la comunità internazionale rimase inerme fino a quando il presidente americano Clinton nel 1995 disse basta… Ecco, voglio dire il rock è l’unico genere che prova a smuovere le coscienze. Vi sentite come band la responsabilità di un lavoro di “testimonianza” - e avete già fatto molto - oltre al vostro di musicisti?
Ti ringrazio, ma essere musicisti ci deve chiamare a una responsabilità, non sono solo canzoni. Per quanto mi riguarda, essere musicista, in particolare rock, interpella la mia coscienza. È il senso stesso della musica intesa come popolare… Per essere popolare deve fare il bene delle persone. Purtroppo, si è scollata questa consapevolezza dalla realtà discografica contemporanea internazionale. Sono rimasti pochi gli artisti che cercano di concretizzare la loro responsabilità con la produzione musicale.
Eddie Vedder dei Pearl Jam a proposito disse: “mi mettete un microfono davanti e io dovrei solo cantare?”
Infatti. Però siamo in un sistema dove si nota sempre più il totale scollamento tra quello che tanti artisti fanno e la loro coscienza. La musica non è un film, è una cosa seria! La musica può creare ponti e abbattere muri, risvegliare la consapevolezza di tante persone, tra l’altro in un momento di assopimento generale. Quindi essere i The Sun significa andare controcorrente, soprattutto nel mondo discografico, ma ciò non toglie che sia la cosa giusta, anche se restassimo gli unici, perché questa è la nostra strada!
Se pensiamo ai tre più grandi intellettuali italiani del Novecento – a mio parere - ovvero Pasolini, Gaber e De Andrè, ben due erano cantautori. Com’è che non ci sono più figure del genere nella musica?
Pasolini, Gaber e De Andrè erano di un altro mondo! Appunto due erano cantautori e hanno saputo davvero dare una forma al pensiero di milioni di persone e interrogare le coscienze. Gaber e De Andrè, nonostante siano morti da vent’anni, tutt’ora interrogano le coscienze. Per me Gaber è fondamentale, soprattutto quando ho voluto interrogarmi sul significato di determinate cose e passaggi della vita. Ecco, oggi, a livello mainstream, siamo in assenza quasi totale di voci del genere. Magari ci sono nell’underground, ma qui purtroppo restano perché oggi il politicamente corretto – nato per non urtare la sensibilità di nessuno - è diventato una gabbia. Non si può più denunciare qualcosa che il mondo mediatico non vuole far emergere.
In questo - ritornando alla visita del Papa a Mosul - non si può non pensare alle immagini forti evocate nel tuo testo “Le case di Mosul”. Questo vostro brano ha un testo che arriva come un pugno allo stomaco. Era tanto che non sentivo una denuncia del genere in una a canzone.
Quella canzone ci è costata molto. I The Sun dovevano far uscire il loro terzo disco, eravamo tornati all’auto-produzione dopo due dischi con Sony, e lanciare un singolo come “Le case di Mosul” era considerata una follia anche dalle persone più vicine. Nel 2014, nonostante l’attualità, non rientrava negli ascolti che si stavano delineando, perché non c’era più l’abitudine a sentire certe parole nelle canzoni. Siamo disabituati culturalmente, se un adolescente ascolta “Le case di Mosul” non intercetta il suo linguaggio perché lo mette in difficoltà… Ma anche questo deve fare la musica!
Vorrei chiederti di un’altra canzone, “Il mio miglior difetto”. Si tratta del vostro manifesto ecologista?
Sicuramente è la canzone manifesto dell’album “Cuore aperto”. Abbiamo pubblicato questo disco il 16 giugno 2015, due giorni dopo il Papa ha reso pubblica l’enciclica Laudato si’ (l’enciclica verte sull’interconnessione tra la crisi ambientale della Terra e la crisi sociale dell’umanità. NdR). Voglio dire noi, nel nostro piccolo, non potevamo saperlo, ma scoprendo tale comunione tra quel disco e l’enciclica avevamo colto quella direzione con “Il mio miglior difetto”. Siamo persone che restano in ascolto e cercano di restare libere - anche grazie alla fede, ma a prescindere da questa - osservando e accorgendosi di quello che avviene nel mondo. Il prendersi cura della casa comune è un imperativo, perché farlo significa che abbiamo sviluppato altre attenzioni: empatia, comprensione, sostegno reciproco… Tutto è prezioso e merita di essere custodito.
La questione ecologica è un tema grande… È incredibile come a livello politico non si sia voluta affrontare. Forse è ancora troppo forte l’influenza del “capitalismo anglosassone”, il neo-liberismo che predica la sola fede del profitto.
Sfondi una porta aperta! Siamo schiavi di una concezione “americana” del mondo che ha devastato, se vuoi, anche l’Italia e il Mediterraneo in generale.
È una filosofia economica basata sull’accumulazione di molto nelle mani di pochi, a discapito di tutti gli altri.
Nella nostra cultura la fraternità era un valore, qualcosa di radicato nell’esperienza sociale. Il turbo-capitalismo spinge in direzione opposta e devia dalla nostra stessa natura.
La sensibilità ambientale dei The Sun come si è materializzata in impegno concreto?
Alcuni anni fa abbiamo cominciato un processo, siamo partiti da una cosa molto semplice: il cibo. Quando una band è in tour ci sono una serie di richieste per il catering e noi nel tempo abbiamo cercato sempre più di sensibilizzare tutte le realtà con cui lavoriamo affinché non ci sia spreco. Nel mondo delle produzioni non esiste la cultura delle “verdure a km zero”, dare sostegno ai piccoli produttori, evitare di acquistare nella grande distribuzione certi prodotti, ecc... Da anni le nostre richieste sono cruelty-free e plastic-free. Pure su alcune marche chiediamo attenzione. Siamo impegnativi come richieste ma vogliamo fare cultura, come qualcuno l’ha fatta con noi.
Per quanto concerne Save The Planet possiamo solo dirvi bravi!
Magari non siamo stati bravi a comunicare bene quello che abbiamo fatto - poi paradossalmente viviamo in un mondo dove vengono comunicate cose che non sono state fatte – ma noi vogliamo dare un segnale da ora in avanti. Inoltre, appena possibile, quando torneremo a suonare, una parte dei nostri eventi si realizzerà con le batterie di accumulo di energia. Chiaramente non è possibile se ci esibiremo davanti a migliaia di persone, data la necessità di un service complesso, ma lo possiamo fare per gli house concert o per dei live acustici. Qui abbiamo messo in piedi un sistema che si autoalimenta con delle batterie per il risparmio energetico.
A proposito di strumentazione, so che avete fatto altri investimenti importanti per ridurre l’impatto ambientale.
Abbiamo digitalizzato tutti gli amplificatori, le luci e i mixer… Si tratta di un sistema che è passato dall’assorbimento di varie decine di chilowattora a pochi kWh. Non è stato semplice, ma è indiscutibile che trasportare 400 kg di amplificatori ha un impatto in sé perché costringe a movimentare più mezzi. Quindi, anche trovare un sistema di amplificatori digitali più piccoli e leggeri è stato un processo, perché come musicisti eravamo legati a un certo tipo di strumentazione. Non era facile cambiare abitudine, andavamo in giro con una quantità di materiale tecnico che era parte del nostro immaginario e retaggio culturale musicale. Però è necessario fare dei cambiamenti e quando si innesca un processo ne comprendi la convenienza da molti punti di vista.
Articolo di Francesco Sani
Foto di Silvia Dalle Carbonare